Dare voce a un brand: verbal identity e tone of voice
B&B language
Ci fermiamo in Autogrill? Così compro i Kleenex
e una bottiglia d’acqua per prendere l’Aspirina!
Tranquilli, non abbiamo preso l’influenza: si tratta solo di un esempio per farvi comprendere cosa siano i brand-antonomasia, nomi di marchi che utilizziamo nel linguaggio corrente per indicare un’intera categoria di prodotti.
Il successo, infatti, ha trasformato alcuni brand in parole di uso comune, talmente entrate nel nostro linguaggio da non renderci più conto della loro origine!
Questo processo ha portato addirittura alcuni marchi a decadere e, quindi, a non poter più essere sfruttati commercialmente da chi ne possedeva il brevetto.
Fra storie curiose e battaglie legali, scoprite con noi 15 nomi che forse non sapevate essere dei marchi.
È il nome della caffettiera brevettata da Bialetti nel 1933, dal caratteristico design: talmente entrata nell’uso comune che oggi usiamo moka come sinonimo di macchinetta del caffè in alluminio o acciaio.
Il nome di questa particolare chiave deriva a Egidio Brugola, che depositò il brevetto in Italia e commercializzò il suo prodotto, portando così il suo cognome nel vocabolario della lingua italiana!
È un termine usato tanto quanto “mascara”: è il cognome del profumiere francese del XIX secolo, Hyacinthe Mars Rimmel, che con suo figlio Eugene fondò una sua attività, poi sviluppatasi nell’impresa cosmetica inglese Rimmel.
La Corte Suprema austriaca ha decretato che il marchio Walkman di Sony è diventato una parola di uso comune per indicare il registratore portatile, facendo perdere i diritti di utilizzo esclusivo del termine in Austria.
È un marchio di Vileda, ma comunemente usiamo questo nome per identificare più in generale le scope con cui lavare i pavimenti. Tanto che nella versione italiana del film Joy con Jennifer Lawrence è stata usata la parola mocio in associazione con la scopa Miracle Mop inventata dalla protagonista. Questo uso del marchio ha dato luogo a una lunga causa, che il Tribunale di Milano ha risolto stabilendo che mocio può essere usato come termine generico.
Il nome con cui chiamiamo la pellicola alimentare prende origine dalla società francese Cellophane SA, che a inizio ‘900 ha acquisito i brevetti della plastica trasparente inventata dallo svizzero Jacques Brandenberger.
Il più famoso fra i brand diventati di uso comune. Il marchio della bambola Mattel oggi viene usato per indicare sia in senso ampio la categoria di giocattolo, sia una donna dalla bellezza artefatta.
Il brand Jeep, che deriva dalla pronuncia della sigla G. P. (general purpose, per tutti gli usi), era il nome di un veicolo 4×4 della Willys che debuttò nella seconda guerra mondiale. Oggi è diventato sinonimo di fuoristrada 4×4.
È il cognome dell’inventore della penna a sfera, László József Bíró: il giornalista ungherese brevettò e perfezionò la penna, i cui diritti vennero ceduti all’azienda Bic, mandando definitivamente in pensione pennino e calamaio.
Chiamereste mai lo scotch “nastro autoadesivo”? Probabilmente no, preferireste utilizzare il nome del marchio che risale al 1930: commercializzato dalla 3M, fa riferimento al prodotto inventato dall’ingegnere Richard Drew.
Diventato denominazione generica di abiti per donne in dolce attesa, era un marchio di abbigliamento.
Il termine che identifica la polvere bianca usata in cosmetica è talco, mentre Borotalco è il nome commerciale del prodotto commercializzato da Manetti & Roberts che, con il suo packaging verde è entrato nella mente del consumatore.
Il nome dell’operatore nei servizi di ristorazione viene utilizzato per indicare genericamente un posto di ristoro lungo l’autostrada.
È il marchio dell’azienda statunitense Kimberly-Clark, entrato nell’uso comune come sinonimo di “fazzoletti di carta”.
Utilizzato spesso per indicare la categoria dei farmaci analgesici, è un marchio registrato della casa farmaceutica Bayer.
Quando un brand diventa una parola comune che identifica l’intera categoria e perde la sua capacità distintiva, si arriva alla volgarizzazione del marchio. Se da un lato significa aver raggiunto una notorietà assoluta, dall’altro comporta la decadenza del marchio stesso.
Per un’azienda questo si può tradurre con una perdita, perché anche altri soggetti sono autorizzati ad utilizzare il nome del brand: gli sforzi profusi per far diventare famoso un prodotto, quindi, possono essere sfruttati da terzi.
Dal punto di vista del consumatore, l’effetto collaterale è la perdita di associazione mentale fra il marchio e l’azienda che l’ha creato. Questa percezione distorta fa dire addio agli investimenti fatti per rendere noto il brand.
Ma è possibile difendere un brand dalla volgarizzazione? Il titolare stesso del marchio gioca un ruolo attivo nella tutela: da un lato deve porre attenzione a non usare il brand come denominazione generica del prodotto, dall’altro deve intervenire se ne nota un utilizzo improprio da parte di terzi.
È quello che ha fatto ad esempio Ferrero per la parola Nutella, chiedendo al dizionario Devoto-Oli l’inserimento della specifica “marchio registrato” alla definizione pubblicata.
L’opposizione all’uso descrittivo di un marchio si può rimarcare anche attraverso la comunicazione di un brand, evidenziando in ogni occasione e con ogni strumento che si tratta di marchio registrato: se fate caso, tutte le pubblicità e in generale tutta la comunicazione Ferrero di questa crema spalmabile riportano sempre il simbolo ®.
La tutela del marchio spesso si concretizza in azioni legali, come quelle già citate che riguardano il Mocio Vileda e il Walkman Sony: in questi casi la controversia si è risolta a favore della volgarizzazione del marchio.
Per Aspirina, invece, la tutela del brand continua: la casa farmaceutica è riuscita a dimostrare che Aspirina in Italia ha i requisiti per identificare uno specifico prodotto di una determinata azienda.