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Inneres auge. La linea orizzontale e i picchi del Brand Activism.

Essere o non essere brand activist. Questo è il problema.

Lo sappiamo tutti, ormai lo sanno anche i meno avvezzi al mondo della comunicazione, che nel 2022 essere marca non basta più. Bisogna esserci.

Nell’epoca del politicamente corretto e della cancel culture, non c’è né tempo né spazio per la passività. Nemmeno è sufficiente auto proclamarsi vincitori di battaglie del pulito senza dimostrarsi tali. I panni, sporchi o no, si lavano davanti a tutti, diventando attivi sui social come in ambito sociale.

E prendendosi il rischio di comunicare… Per davvero.


Brand e società. Il cuore oltre l’ostacolo.

È successo… Dopo l’omino di latta ora anche i brand hanno un cuore.

Auscultatissimo dai consumatori, lovvato dalle community, seguito dalle fanbase, il cuore umano dei brand ha imparato a battere non solo per sé stesso e a sintonizzarsi sulle frequenze del mondo circostante.

Praticando brand activism.

In Brand Activism – dal purpose all’azione di Philip Kotler e Christian Sarkar, i due autori indicano proprio come passare da una visione marketing-driven a una society-driven e passare così dalle parole ai fatti.

Non è un caso che la prefazione del libro sia a cura di Paolo Iabichino.

Il former Creative Director di Ogilvy Italia ha lanciato insieme ad Ipsos Osservatorio Civic Brands, progetto editoriale che racconta l’impegno sociale delle aziende e brand in Italia, facendo ordine in un settore in cui temi quali la sostenibilità, il purpose e l’attivismo sono all’ordine del giorno.

E a proposito di Ogilvy…


Il consumatore non è stupido, ma non è più tua moglie.

Caro David,

le mogli sono cresciute.

Sono diventate madri, alcune nonne. Il consumatore ora è la Gen Z.

Qualcuno li chiama nativi digitali, sono in mezzo a noi e sono bellissimi: attenti, consapevoli, inclusivi… Tutti li vogliono e loro, più di chiunque altro, vogliono il cambiamento. E lo cercano anche nei brand.

Che sia una battaglia sul riscaldamento globale o contro le discriminazioni razziali, per un brand schierarsi da una parte o dall’altra della barricata è una scelta strategica che può attirare come repellere fette di mercato.

Con relativa perdita di dignità, follower e fatturato.


Direzione: social impact.

Se dico Dove, Patagonia o Lego… Cosa ti viene in mente?

Sono tutti brand, sono importanti, ma soprattutto sono riusciti anzi, stanno riuscendo, a spingere la propria purpose aziendale verso il social impact.

Dove promuovendo la bellezza autentica, Patagonia supportando l’attivismo, Lego incoraggiando la libertà d’espressione per tutti, senza gender gap ed age gap.

Ma di cosa parliamo quando parliamo di social impact?

Ben lontano dall’idea che sia una medaglia da appuntarsi al petto e mostrare poi nel proprio sito web (di solito alla voce sostenibilità), il social impact è quell’insieme di azioni compiute allo scopo di migliorare vita e servizi della collettività, coniugando la propria mission economica all’impatto sociale.

Sempre più di rilievo, il concetto dell’impatto sociale dal 2016 è monitorato dalla Social Impact Agenda per l’Italia: un’organizzazione che rappresenta l’Advisory Board del Belpaese nel GSG e che in 33 paesi si impegna a promuovere e ad accelerare la diffusione dell’impact investing a livello globale.


Quando i brand dicono: Ce la faremo!

Al secondo anno di Coronavirus, abbiamo imparato molte cose, pare anche a vivere in maniera più sostenibile.

Il mondo aveva bisogno di una pausa dall’essere umano. Noi di una pausa di riflessione.

E se da un lato l’Italia si è ritrovata unita nell’esprimere supporto reciproco sventolando arcobaleni e urlando dai balconi, i brand hanno optato quasi tutti per la via del conforto, superando ogni social distance con comunicazioni empatiche e valoriali.

Da Barilla ad Amazon, da Pupa ad Esselunga. Gli spot tv della Fase 1 ci hanno fatto emozionare. Quasi quanto i Natali firmati John Lewis.


Believe in something… Il caso Nike.

Di Miss Sarajevo ce n’è una. Le altre si preoccupano della pace nel mondo solo a fine sfilata.

Certo, la passeggiata lungo il red carpet dei brand che aspirano a diventare modelli di brand activism non è tutta rosa e fiori. È loro compito impegnarsi in azioni ben precise ed essere reattivi, riflettendo gli accadimenti del mondo contemporaneo.

Ma cosa succede quando gli eventi della quotidianità diventano così di rilievo da rendere impossibile il silenzio?

“Believe in something, even this mean sacrifice everything” recitava una coraggiosa Nike del 2018.

Dietro il suo celebre swoosh, l’altrettanto celebre (almeno negli USA) volto del campione di football Colin Kaepernick.

L’atleta, icona dell’America antirazzista, è diventato anche il simbolo delle nuove lotte brandizzate e di quella consapevolezza del pubblico cosciente del fatto che desiderare un prodotto e acquistarlo significa appoggiarne la filosofia, diventando ambasciatori non della marca stessa ma dei suoi ideali.


La guerra in Ucraina e le risposte griffate.

Non abbiamo fatto in tempo a sentirci liberi, senza le nostre mascherine usa e getta (l’ambiente comunque ringrazia) a coprirci il volto, che è stato l’inizio di una nuova guerra.

Il De Bello Russo/Ucraino è cascato a fagiolo: dopo due anni di pandemia e in Italia, alle pendici dell’evento più leggero dell’anno, in effetti la maggior parte delle modelle pesa poco: la Fashion Week di Milano per la stagione F/W 2022/2023.

E la reazione dell’Industria della Moda?

Il Creative Director Pierpaolo Piccioli ha scelto, in mezzo a splendidi abiti rosei della Valentino PP Pink Collection, di attraversare questo momento tutt’altro che roseo con un sobrio fiocchetto dai colori ucraini.

Re Giorgio ha preferito, in segno di rispetto per le vittime del conflitto, di non usare nessun tipo di musica durante la sfilata.

Messaggi contro la guerra sono comparsi anche fuori dalle sfilate, prima degli show, senza contare sui social dove lo splendido Direttore Creativo Alessandro Michele si è schierato in favore della pace al suono di “Make love not war”.


Brand in fuga da Mosca.

Dall’energia ai trasporti, dall’automotive ai servizi legali, fino ai beni di consumo, sono moltissime le aziende che hanno scelto di riallocare, ridurre o tagliare gli investimenti in Russia.

Secondo Il Sole 24 Ore il primo ad abbandonare Putin è stato il colosso British Petroleum, seguito a ruota sia da altri grandi Gruppi energetici che da marchi super pop.

Degna di nota è l’operazione di McDonald’s, che ha chiuso i propri fast-food continuando a pagare lo stipendio ai suoi dipendenti.

Una linea simile è stata seguita da PepsiCo, Unilever, P&G e Danone che hanno scelto di procedere con la sola distribuzione in Russia di prodotti di prima necessità.

Invece, pur soffrendo per il 30% di quota di mercato persa a causa del blocco dell’export dei propri prodotti in terra russa, Samsung si è impegnato a donare 6 milioni di dollari agli sforzi umanitari, inclusi un milione di prodotti elettronici.

E per chi resta… Il boicottaggio è dietro l’angolo.

Loro Piana, loro malgrado, ne sanno qualcosa.


Le fake news hanno le gambe corte.

Nell’overdose di notizie in cui viviamo, ancora intontiti dalle immagini dell’invasione russa, la notizia del blocco degli accessi di PornHub agli utenti russi ci ha strappato ben più di un sorriso, facendo alzare l’asticella della stima verso il sito per adulti.

Peccato che la squadra anti-truffa di Butac abbia prontamente reagito alla notizia, rivelandoci una viralissima bufala.

Proprio riguardo alle fake news a tema ucraino, è Butac a dire: – Ogni volta che usiamo una fake news per difendere una battaglia in cui crediamo stiamo regalando ai nostri oppositori un’arma che ci si ritorcerà contro prima o poi. Le “bugie buone” non esistono, non capirlo è grave.

Un mantra che i brand che scendono dagli altipiani ululando, devono imparare a comprendere. Aprendo il proprio inneres auge ed elevandosi.

In nome del Brand Activism.

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